giovedì 28 maggio 2009

TOGHE ROSSO SANGUE

RELAZIONE TENUTA IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO
"TOGHE ROSSO SANGUE" ORGANIZZATA DALLA FONDAZIONE ITALO FALCOMATA'




Quando Paride mi disse che stava scrivendo un libro sui magistrati assassinati, pensai immediatamente a Falcone e Borsellino. Tutti ricordano il loro sacrificio. Poi il mio pensiero andò ad Antonino Scopelliti, non solo perché reggino e ucciso in Calabria ma anche perché legato a un periodo ben preciso della mia vita. In quel torrido agosto del 1991, incontrai una persona che lo conosceva sin dai tempi dell’Università. Mi parlò di un giovante distinto e riservato; sempre in giacca e cravatta e con un paio di quotidiani sottobraccio. Un giovane, mi disse, che si notava. Poi altri nomi: Bruno Caccia, Vittorio Occorsio, Rocco Chinnici. Ma più frugavo nei meandri della memoria più trovavo il vuoto. Ignoravo o avevo dimenticato i tanti uomini caduti al servizio delle istituzioni. E che dire degli uomini della scorta? Già è brutto citarli così: non come singoli ma come componenti di un organismo più ampio, come se fossero privi di una loro peculiarità. Purtroppo ricordavo solo Lenin Mancuso e Manuela Loi. Anche qui un grande buco nero: che non aiuta. Non consente di comprendere quanto accaduto. Invito tutti a seguire il mio stesso percorso. Quali magistrati assassinati ricordate? Sono molti di più i dimenticati. Questo libro, quindi, copre un vuoto e restituisce al paese le storie di ventisei magistrati. E’ un libro da rileggere spesso e dovrebbe trovare posto nelle scuole. Ma i numeri non si fermano qui. E’ necessario aggiungere gli angeli custodi: diciassette appartenenti alle forze dell’ordine caduti mentre scortavano i magistrati. Dobbiamo, infine, ricordare coloro che furono coinvolti per caso. A volte sono definiti vittime innocenti: perché? Gli altri sono colpevoli? Sono il portiere della casa di Rocco Chinnici; il figlio del giudice Saitta assassinato con il padre. E poi Barbara Asta e i suoi due figli uccisi in un attentato contro il giudice Carlo Palermo. Infine, Pietro Nava, rappresentante di porte di Sesto San Giovanni: assiste all’omicidio Levatino e testimonia. Oggi vive all’estero, sotto falso nome. Un libro di Pietro Calderone e un film con Fabrizio Bentivoglio ricordano la sua storia. Già questo semplice elenco da il quadro di quanto accaduto: 48 morti. Una strage! Un unicum nella storia d’Europa. Il libro non è solo questo: una lista di morti. E’, anche, o forse soprattutto, un lungo viaggio nella storia d’Italia: nei suoi angoli più bui e nascosti, dove di solito pochi si avventurano. E chi lo fa, talvolta, lo fa con sensazionalismo e scandalismo. Paride Leporace, invece, compie il suo viaggio con professionalità. Non cerca lo scoop: cerca di riannodare, con pazienza, i fili di una lunga scia di sangue. Individua le zone d’ombra, le complicità, le omissioni. In questa lungo viaggio la Calabria è presente. Oltre alle vittime calabresi c’è Bruno Caccia, Procuratore della Repubblica, assassinato dalla ‘ndrangheta a Torino. Ma ci sono anche coloro che hanno un legame con la nostra Regione. Emilio Santillo, Questore di Reggio durante la rivolta; il gen. Mino comandante dell’ Arma dei Carabinieri caduto con l’elicottero sul Monte Covello. C’è, inoltre, traccia del lungo rapporto che come calabresi e meridionali abbiamo avuto, abbiamo e, spero continueremo ad avere in futuro con lo Stato. Come leali e fedeli servitori delle Istituzioni anche a prezzo della vita. Penso anche ai tanti semplici lavoratori che quotidianamente compiono il proprio dovere nelle Istituzioni: senza assurgere agli onori della cronaca. E’ un’utile occasione per riflettere su quanto sia avventata la richiesta di meno Stato che talvolta proviene proprio da chi dallo Stato e nello Stato trae risorse e legittimazione. Anche perché, quando lo Stato, nelle sue varie forme, arretra: altri occupano il suo posto. Il libro si apre con la storia di Agostino Pianta, lucano, Procuratore della Repubblica di Brescia ucciso il 17 marzo del 1969 da Loris Guizzardi. Guizzardi era stato condannato per omicidio prima della guerra. Riteneva quella condanna ingiusta e voleva vendicarsi. Come? Uccidendo un magistrato: uno qualsiasi. Toccò ad Agostino Pianta, che aprì così la lunga serie dei magistrati assassinati. Guizzardi si presenta al Palazzo di Giustizia di Brescia e chiede del Procuratore Capo. L’usciere gli dice che c’è da aspettare e lui aspetta. Alla fine della mattinata il dott. Pianta sta per andare via, ha già preso cappotto e cappello, quando l’usciere gli ricorda quella persona in attesa. “Poveretto, quanto ha aspettato”. Ma appena dentro l’ufficio Guzzardi non dice nulla: spara. Pianta morirà poco dopo il ricovero in ospedale. Oggi il figlio Donato è giudice alla Corte d’Appello a Brescia; nel cortile del Palazzo di Giustizia un busto ricorda suo padre. L’ultimo magistrato del libro è Paolo Adinolfi, magistrato della Corte d’Appello di Roma. Adinolfi esce da casa il 2 luglio del 1994 e non fa più ritorno: come Ettore Maiorana e Paolo Caffè. Ha lavorato a lungo alla sezione fallimentare del Tribunale di Roma. Si è occupato di crack eccellenti con vorticosi giri di denaro. Poi incontriamo Luigi Daga, catanzarese. Figlio di un magistrato, decide di seguire la strada paterna. Dopo la laurea in giurisprudenza a Roma, un periodo in polizia come commissario e poi in magistratura. Daga è un intellettuale: uno studioso di temi penitenziari. Dirige l’Ufficio Studi e Ricerche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Pubblica articoli su riviste scientifiche ed è spesso relatore a convegni scientifici internazionali. Alcune sue riflessioni sono ancora attuali. “La risposta detentiva va adottata solo per i casi gravi. Soluzioni alternative devono prendere il posto del carcere“. Un no al carcere come rimedio per tutti i mali. Nell’ottobre del 1993 Daga è a Il Cairo, per partecipare come relatore al VI Congresso dell’Associazione egiziana di Diritto Criminale che si svolge all’Hotel Semiramis. Ma il fuoco dell’eversione islamica cova sotto la cenere. Il paese dei Faraoni è strategico. Controlla il Canale di Suez: vena giugulare del traffico marittimo mondiale. Ha firmato la pace con Israele: Sadat sarà assassinato per questo. Colpire i turisti significa destabilizzare il paese. Mentre Luigi Daga nella hall conversa con altri relatori, un terrorista inizia a sparare contro gli stranieri che bevono alcolici. Daga è colpito alla testa da due pallottole ma è vivo. Le sue condizioni sono disperate: trasferito a Roma, morirà al San Filippo Neri dopo venti giorni d’agonia. Oggi, l’Istituto Sperimentale a Custodia Attenuata di Laureana di Borrello - una struttura all’avanguardia - porta il suo nome. Presso la Biblioteca Comunale Pietro De Nava c’è un libro di un Luigi Daga Per la festività della città di Reggio in onore di Maria del Consolo nella tornata dell’anno 1844. Non è ovviamente lui, ignoro se sia un suo avo. Poi c’è la lunga lista dei magistrati uccisi dal terrorismo durante gli anni di piombo. Francesco Coco, Procuratore Generale di Genova, primo magistrato vittima del terrorismo e delle Brigate Rosse. Vittorio Occorsio, PM romano ucciso da Pierluigi Concutelli: nome di battaglia Comandante Lillo. E’ ormai storia la sua foto mentre saluta romanamente dopo l’arresto. Concutelli è il comandante militare di Ordine Nuovo. Ha un ruolo di primo piano nella galassia eversiva di destra, con contatti anche con Guerin Serac dell’Aginter Press di Lisbona. Durante la detenzione commette due omicidi. Dopo 28 anni di carcere, inizia a lavorare all’esterno. Ma, trovato in possesso di una modica quantità di droga leggera, perde i benefici di legge. Il quotidiano di Rifondazione Comunista lo difende. Incontriamo Riccardo Palma, che si occupa di edilizia carceraria e Girolamo Tartaglione capo dell’Ufficio degli Affari Penali al Ministero di Grazia e Giustizia: assassinati dalle Brigate Rosse. Fedele Calvosa, Procuratore della Repubblica di Frosinone - nato a Castrovillari - assassinato dalla Formazioni Comuniste Combattenti. Con il suo omicidio, volevano compiere un salto di qualità: sarà la loro fine. Tra l’altro, un terrorista fu ucciso da altri terroristi. Emilio Alessandrini che scoprì la pista nera su Piazza Fontana. Assassinato da Prima Linea, perché – secondo i suoi assassini - dava credibilità allo Stato che si voleva abbattere. Stessa sorte per Guido Galli. Nicola Giacumbi, Procuratore della Repubblica di Salerno, ucciso per una sorta di prova di coraggio da un gruppo di sbandati, aspiranti terroristi. Girolamo Minervini rifiuta la scorta per non far massacrare inutilmente tre o quattro ragazzi. Sarà assassinato sull’autobus. Dirà il figlio: “Senza scorta e in autobus, andò a fare la sua parte, senza chiedersi se l’avessero fatta anche gli altri”. Di Mario Amato, PM romano vittima dei NAR, è rimasta nella memoria collettiva la fotografia con la sua scarpa bucata. Un’immagine impietosa che dava l’idea di uno stato a brandelli, incapace di reagire. Poi c’è il lungo, terribile elenco degli assassinati dalla criminalità organizzata: il cuore di tenebra della storia repubblicana. Se il terrorismo fu chiaro nella sua ferocia, pur con un corollario di ambiguità e misteri, ben diverse sono queste storie. Nell’immaginario collettivo è il fuoco a fare paura. Personalmente temo l’acqua. Il fuoco è terribile con le fiamme e il fumo: ma è visibile. L’acqua è più insidiosa: scorre silenziosa e sotterranea; scopre e utilizza ogni interstizio. Con i giudici uccisi dal crimine organizzato entriamo in una dimensione melmosa che Paride Leporace ben descrive con “equilibri paludosi”; “opaco contesto”; “nebulosa vicenda”. E’ Pietro Scaglione, Procuratore della Repubblica di Palermo, ad aprire questo triste elenco il 5 maggio del 1971. Anche allora non mancarono i veleni. Scaglione stava per essere trasferito a Lecce per via di alcune polemiche che avevano scosso gli ambienti giudiziari cittadini. Aveva allestito molti processi di mafia, alcuni poi condurranno al grande processo di Catanzaro. Già allora si assistette al consueto fiume di polemiche, accuse, critiche, indiscrezioni. Il risultato, in questi casi, è una gran confusione che intorbida le acque e allontana la verità. Altri magistrati avranno lo stesso destino. Francesco Ferlaino, Avvocato generale dello Stato di Catanzaro: assassinato con due colpi di lupara sotto casa in Corso Numistrano a Lamezia Terme. Cesare Terranova, già parlamentare del PCI per due legislature. Il processo per il suo omicidio si terrà a Reggio di Calabria. Gaetano Costa, partigiano in Val di Susa e Procuratore a Palermo. Gian Giacomo Ciaccio Montalto, assassinato a Trapani a colpi di Smiht & Wesson e mitraglietta. L’orologio della sua auto si bloccò all’una e dodici; l’allarme fu dato da un pastore alle sei e quarantacinque. Durante quelle ore nessuno si affacciò; nessuno si chiese cosa fosse successo. Montalto viveva solo, la moglie e le figlie vivevano altrove: morirà solo. La sua colpa? Era riuscito a mettere il naso nei forzieri del crimine: quell’enorme flusso di denaro frutto del traffico di droga. Rocco Chinnici vittima di un’auto bomba: in perfetto stile libanese. E un libanese sarà tra i primi indagati. Alberto Giacomelli, un anziano giudice, tranquillo e riservato, assassinato a Trapani, mentre infuriavano le polemiche per l’articolo di Sciascia sui professionisti dell’Antimafia. Un magistrato che alla domanda qual è il compito del giudice risponde: “Non è solo quello di applicare meccanicamente le regole del diritto, ma soprattutto di mediare le tensioni della società in cui vive”. Anche in questo caso piste vere e piste false; balordi e consueto giro di voci. Poi i nomi noti: Falcone, Morvillo e Borsellino. L’allora Presidente della Corte d’Appello di Palermo farà presente a Giovanni Falcone che il suo amore per Francesca Morvillo da scandalo. Da scandalo una storia d’amore sincera e riservata? Tra due persone accomunate da un percorso professionale prima, di vita poi e infine da un tragico destino di morte. Forse le pietre dello scandalo avrebbero dovuto essere altre. Francesca Morvillo subito dopo l’attentato, nonostante la gravità delle proprie ferite, chiederà notizie di Giovanni. Paride Leporace non pubblica un biglietto d’amore di Giovanni a Francesca. Non vuole violare una sfera intima che nulla aggiunge ai fatti. Un estremo, nobile gesto di rispetto. Dopo Falcone tocca a Borsellino. Dalla sua storia apprendiamo di un contatto tra Cosa Nostra e le Istituzioni. Addirittura sarebbe stato preparato un elenco di richieste: il papello. Ma i protagonisti negano. Qual è la verità? Da queste pagine affiorano altre storie. Bruno Contrada condannato per mafia ma difeso a spada tratta dalla moglie e dal figlio del giudice Costa, che continuano la battaglia antimafia. E poi altri uomini delle istituzioni assassinati: il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il capo della mobile palermitana Boris Giuliano, Ninni Cassarà, Beppe Montana, Pio La Torre, Guido Rossa …etc. etc. Rivediamo anche volti di potenti ormai inghiottiti dal tempo: Aristide Gunnella e Salvo Lima; Clelio Darida e Claudio Martelli. Sono lontanissimi, ormai coperti dalla polvere della storia. Potremmo dire, parafrasando un vecchio film western “Nessuna pietà per Ulzana”, sembrano niente: eppure furono qualcuno. Un libro, che come tutti i buoni, libri lascia ancora voglia di sapere e conoscere. O meglio ancora è una porta che si apre su realtà da svelare. Ma qual è l’elemento che accomuna questi magistrati assassinati? Oltre l’impegno, la fedeltà alle istituzioni, la professionalità. Essere soli. Ne parla Antonino Scopelliti. Non frequentare nessuno; non fidarsi di nessuno; isolarsi. E’ un pò morire. Ma oggi i giudici sono ancora soli?

Tonino NOCERA

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